Apostoli dell'Amore Divino

Posts written by Maria Diega

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    Coloro che vivono secondo il mondo ritengono sia troppo difficile salvarsi. Eppure non vi è nulla di più facile: basta osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa ed evitare i sette peccati capitali; oppure, se preferite, fare il bene ed evitare il male; tutto qua!
    I buoni cristiani che si danno da fare per salvare la loro anima sono sempre felici e contenti: godono anticipatamente della felicità del cielo e saranno felici per l'eternità. I cattivi cristiani, invece, quelli che si dannano sono da compatire: mormorano, sono tristi e lo saranno per l'eternità.
    Un buon cristiano, un avaro del cielo, tiene in poco conto i beni terreni: egli pensa soltanto a render bella la propria anima, ad accumulare ciò che lo renderà felice in eterno, ciò che dura in eterno. Guardate i re, gli imperatori, i grandi della terra: sono molto ricchi, ma sono contenti? Se amano il buon Dio sì; ma se non lo amano, no, non sono contenti. Personalmente trovo che non vi sia nulla di più triste dei ricchi, quando non amano il buon Dio.
    Andate pure di continente in continente, di regno in regno, di ricchezza in ricchezza, di piacere in piacere: non troverete la felicità che cercate. La terra e quanto contiene non possono appagare un'anima immortale più di quanto un pizzico di farina, in bocca ad un affamato, possa saziarlo.
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    Molti sono i cristiani, figli miei, che non sanno assolutamente perché sono al mondo..."Mio Dio, perché mi hai messo al mondo?". "Per salvarti". "E perché vuoi salvarmi?". "Perché ti amo".
    Com'è bello conoscere, amare e servire Dio! Non abbiamo nient'altro da fare in questa vita. Tutto ciò che facciamo al di fuori di questo, è tempo perso. bisogna agire soltanto per Dio, mettere le nostre opere nelle Sue Mani... Svegliandosi al mattino bisogna dire: "Oggi voglio lavorare per Te, mio Dio! Accetterò tutto quello che vorrai inviarmi in quanto tuo dono. Offro me stesso in sacrificio. Tuttavia, mio Dio, io non posso nulla senza di Te: aiutami|".
    Oh! come rimpiangeremo, in punto di morte, tutto il tempo che avremo dedicato ai piaceri, alle conversazioni inutili, al riposo anziché dedicarlo alla mortificazione, alla preghiera, alle buone opere, a pensare alla nostra miseria, a piangere sui nostri peccati! Allora ci renderemo conto di non aver fatto nulla per il cielo.
    Che triste, figli miei! La maggior parte dei cristiani non fa altro che lavorare per soddisfare questo cadavere che presto marcirà sotto terra, senza alcun riguardo per la vostra anima, che è destinata ad essere felice o infelice per l'eternità. La loro mancanza di spirito e di buon senso fa accapponare la pelle!.
    Vedete, figli miei, non bisogna dimenticare che abbiamo un'anima da salvare ed un' eternità che ci aspetta. Il mondo, le ricchezze, i piaceri, gli onori passeranno; il cielo e l'inferno non passeranno mai. Stiamo quindi attenti!
    I santi non hanno cominciato tutti bene, ma hanno finito tutti bene. Noi abbiamo cominciato male: finiamo bene, e potremo un giorno congiungerci a loro in cielo.
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    Figli miei, la Parola di Dio non è certo poca cosa! Le prime parole che Nostro Signore rivolse ai suoi Apostoli furono: "Andate e ammaestrate...". Questo per mostrarci che la conoscenza della verità deve essere posta al di sopra di ogni cosa.
    Cosa ci ha fornito la nostra religione? Gli insegnamenti che abbiamo ricevuto. Cosa ci fa sentire l'orrore del peccato... ci fa avvertire la bellezza della virtù... e nascere in noi il desiderio del cielo? Gli insegnamenti. Che cos'è che fa conoscere ai padri e alle madri i doveri che hanno nei confronti dei loro figli e ai figli i doveri che hanno verso i loro genitori? Gli insegnamenti.
    Figli miei, perché siamo così ciechi e così ignoranti? Perché non facciamo affatto caso alla parola di Dio...
    Se una persona è istruita, c'è sempre la possibilità che si riprenda. Per quanto si perda in ogni sorta di brutta strada, si può sempre sperare che presto o tardi torni al buon Dio, foss'anche in punto di morte. Al contrario, una persona che è ignorante nella propria religione, è come un moribondo che ha perso conoscenza: non conosce né la gravità del peccato, né la bellezza della sua anima, né il valore della virtù; si trascina di peccato in peccato.
    Una persona istruita ha sempre due guide che camminano davanti a lei: il consiglio e l'obbedienza.
    Credo che una persona che non ascolta la Parola di Dio come si deve non si potrà salvare: non saprà mai cosa bisogna fare per ottenere la salvezza.
    Figli miei, penso spesso che la maggior parte dei cristiani che si dannano, si dannano a causa della loro ignoranza.
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    LA "PURIFICAZIONE ULTRATERRENA"
    Il Purgatorio
    "Dio onnipotente e sempiterno che nessuno mai supplica senza speranza di misericordia, mostrati propizio all'anima del tuo fedele..." (Dalla liturgia).
    Se è vero che con la dipartita da questo mondo la sorte di ciascuno resta fissata per sempre, bisogna però anche precisare che, per gli eletti, è prevista una eventuale purificazione, perché non si può comparire davanti a Dio e vivere con Lui e in Lui se non si è pienamente mondi.
    Si tratta della "Purificazione Ultraterrena", altrimenti detta "Purgatorio", il quale non va concepito come una prigione, ma piuttosto come una situazione transitoria nella quale l'anima si purifica anelando a Dio.
    Il Conc. Vat.1I, nella Cost. LG. Ai nn. 49 e 50, rifacendosi al Concilio Tridentino, parla chiaramente sia della esistenza di uno stato di purificazione, sia della preziosità dei suffragi in favore delle anime che attendono d'essere accolte in cielo. Perché è necessaria la ‘Purificazione Ultraterrena’?
    Una volta perdonati i peccati, non sempre l'anima è in grado di partecipare alla beatificante comunione di vita con Dio. Restano ancora i peccati veniali commessi dopo il perdono, restano le cosiddette "reliquie" del peccato (e in verità, dopo che il peccato è stato perdonato, se non si è fatta sufficiente penitenza sulla terra, occorre purificarsi dopo la morte), e spesso rimane un non corretto orientamento del cuore. Ora, fintanto che l'anima non si è completamente purificata, non può entrare in comunione totale di vita con Colui che è l'Infinita Santità e davanti al quale i Serafini si coprono il volto (cf Isaia 6,2-3). Le anime, di fronte alle vicende della vita trascorsa, non potranno non provare dispiacere per le tante occasioni di bene perdute, e per quel bene compiuto più per interesse che per amore... Il Purgatorio si presenta allora come una situazione in cui si trovano simultaneamente presenti pena e desiderio, o meglio una situazione in cui c'è addirittura il desiderio della purificazione, ancorché penosa, perché solo con essa può essere raggiunto l'Infinito Bene, fonte di piena ed eterna beatitudine. Con S. Caterina da Genova (1447-1510) possiamo anche dire che l'anima amante, destinata al Cielo, nell'essere trattenuta dal possedere l'amato Bene Divino soffre, e con questo dolore si purifica. Si comprende allora come la tradizione abbia paragonato al fuoco ciò che ha capacità purificante. Ma si tratta di un fuoco d'amore.
    La preziosità e l'utilità dei suffragi in forza della "Comunione dei Santi", sia coloro che sono ancora pellegrini su questa terra, sia coloro che sono passati all'altra vita, sono legati in un modo reale e profondo che supera gli stessi legami biologici. E come possiamo pregare per i fratelli che vivono accanto a noi, così possiamo pregare per i fratelli e le sorelle che sono passati all'altra vita.
    È particolarmente preziosa l'offerta della S. Messa, suggerita in primo luogo dagli stessi documenti conciliari; ed ancora, sono preziose le preghiere liturgiche, le opere buone, i sacrifici... (L.G., n.49).
    Con questa certezza l'animo nostro non può non provare grande consolazione sapendo che con le nostre preghiere e con le nostre opere buone possiamo fare del bene e rimediare a ciò che non abbiamo fatto nei riguardi dei nostri cari defunti quando essi erano ancora tra noi.
    L'animo nostro deve essere fiducioso e sereno anche perché nulla di quello che noi facciamo per i nostri defunti andrà perduto: neppure quelle preghiere che elevassimo dopo che i nostri cari sono già giunti in Cielo. Il Signore, che è eterno, che vive fuori del tempo, e che da sempre conosce le nostre preghiere, non ne lascia cadere neppure una.
    Cerchiamo allora di essergli grati, perché anche questo è dono della sua infinita misericordia. (…)

    UNA TRAGEDIA POSSIBILE
    L'inferno
    "Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell'ultimo giorno" (Giov 12,48).
    Il già citato documento ufficiale della Chiesa, con precise espressioni, così espone quanto essa intende per Inferno: "Essa (la Chiesa) crede che una pena attende per sempre il peccatore, il quale è privato della visione di Dio, come crede alla ripercussione di tale pena in tutto il suo essere".
    Tutto ciò la Chiesa lo afferma non semplicemente come sua convinzione, ma come insegnamento ricevuto dalla Divina Rivelazione alla quale fedelmente aderisce.
    Dalla formulazione sopra ricordata se ne ricava che l'Inferno esiste, che è eterno, che vi cade chi è recidivo nel peccato, e che consiste soprattutto nella perdita irrecuperabile del Paradiso. Si potrebbe anche dire che l'Inferno è il Paradiso perduto stoltamente e per sempre. Così leggiamo dalla parabola delle vergini "stolte": "... Più tardi arrivarono anche le altre vergini (quelle "stolte") e incominciarono a dire: "Signore, Signore aprici!". Ma Egli rispose: "In verità vi dico, non vi conosco" (Mt 25,11-12).
    E così, più si comprende la grandezza e la bellezza del Paradiso più si arriva a capire il dramma dell'Inferno. Da questo punto di vista converrebbe allora parlare prima del Paradiso e poi dell'Inferno. Ma noi preferiamo lasciare la trattazione del Paradiso come conclusione, non solo perché desideriamo chiudere il discorso con una visione consolante, ma anche per aderire meglio alla volontà di Dio il quale, come meta finale per l'uomo, ha direttamente voluto la gloria del Cielo. Dio, infatti, "Vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità" (1Tim 2,4).
    Di fronte al dramma dell'Inferno la mente umana resta turbata, perché fa fatica a comporlo con l'infinito amore di Dio. Per cercare di capire la reale possibilità per l'uomo di perdersi per sempre, nonostante che Dio sia amore infinito, potremmo suggerire le seguenti considerazioni.
    Dio fa di tutto per salvare l'uomo. L'uomo è creato in uno stato soprannaturale, pecca, e Dio si preoccupa di salvarlo: "Così Dio ha amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito". All'uomo che nuovamente pecca, e si pente, Dio dona ancora il perdono. Possiamo allora dire che: "Non si salva chi non si lascia salvare".
    Conviene poi ricordare quanto afferma il Catechismo degli Adulti: "non possiamo in alcun modo immaginare quanti siano i dannati, anzi di nessuno si può dire con certezza che lo sia. La Chiesa ritiene immensa la schiera dei salvati in Cielo e proclama tra essi i santi... Nessuno è stato dichiarato dannato se si eccettuano i demoni" (C.E.I. Signore da chi andremo?, p.472).
    E la liturgia, che ci invita a pregare per tutti con la nota invocazione: "O Dio, che nessuno mai supplica senza speranza di misericordia...", non ci invita forse anche a sperare?
    Nè dobbiamo dimenticare quanto Gesù disse agli apostoli stupiti per il grave pericolo nel quale incorrono i ricchi. Agli apostoli sconcertati, dopo l'esempio del cammello e della cruna dell'ago - che sembrava precludere ai ricchi ogni possibilità di salvezza - fissando su di loro lo sguardo, disse: "Per gli uomini ciò è impossibile, ma tutto è possibile a Dio" (Mt 19,26).
    È bene perciò desiderare, sperare, pregare perché tutti si salvino, e questo è conforme al piano di Dio. Ma la certezza che ciò avvenga non l'abbiamo: esiste per gli uomini la reale possibilità di perdersi. Tra questa speranza e questo timore si colloca davanti a noi il mistero dell'Inferno.

    VEDREMO DIO COSÌ COME EGLI È
    Il Paradiso
    "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta io verrò da lui, e cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).
    Coloro che muoiono in grazia di Dio sono destinati al Paradiso.
    Paolo VI nella sua Professione di Fede così si esprime: "No! crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù e a Maria, forma la Chiesa del Cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'è".
    In questa visione immediata di Dio sta essenzialmente la gioia del Paradiso. E questa beatitudine viene goduta dalle anime già prima della risurrezione finale. Quella stessa felicità, quella stessa beatitudine, quella stessa gioia che sono proprie delle anime che si trovano in cielo, continueranno riversandosi però ed estendendosi a tutto l'essere umano nella sua compiutezza d'anima e corpo alla fine del mondo.
    Ciò che ora interessa comprendere è l'espressione "visione di Dio", o "visione beatifica", usata dalla scrittura, dal magistero, e dai teologi per esprimere ciò che costituisce la sublime beatitudine degli abitanti del Cielo. In verità, alla gente comune, essa dice poco. Eppure lo stesso evangelista Giovanni così si esprime: "Carissimi già sin d'ora siamo figli di Dio, ma non è ancora apparso quel che saremo, sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è". Che cosa vuol dire?
    Sulla terra nessuno ha mai visto direttamente Dio: lo si piò conoscere indirettamente attraverso le cose create; lo si può conoscere ancora meglio, ma sempre indirettamente, attraverso la Divina Rivelazione; alcuni hanno avuto addirittura esperienze mistiche... ma, qui sulla terra, nessuno ha mai visto direttamente Dio. Lo potremo conoscere direttamente solo nell'aldilà, e nel vederlo saremo simili a lui!
    Ma come è possibile parlarne? Come spiegare questa realtà?
    Possiamo dire che si tratta di una visione di Dio che implica una profondissima e misteriosa esperienza.
    Metaforicamente parlando potremmo pensare ad una lampada che diventa incandescente e luminosa per l'energia che la pervade.
    I beati pervasi dall'essere divino, vengono a diretta conoscenza di quel fuoco e di quello splendore divino che nessuna immaginazione terrena può formulare e descrivere.
    Quanto maggiore è lo stato di grazia, e il grado di carità delle anime che raggiungono il Cielo, e tanto maggiore sarà la loro capacità di ricevere Dio in se, e di partecipare alla sua vita d'amore, di pace, di gioia, di conoscenza. Amano, se così si può dire, col cuore di Dio, e vedono con gli stessi occhi di Dio.
    Si tratta di una realtà misteriosa, trascendente, incomunicabile...
    Con questa immediata presenza del divino vengono fugati i limiti e le sofferenze terrene: "Non ci sarà più la morte, né lutto, né grida, ne affanno, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21,3-5). E la promessa delle beatitudini avrà la sua realizzazione: "Beati gli afflitti, perché saranno consolati...; beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati" (Mt 5,4 ss).
    Ed alla comunione degli uomini con Dio, si aggiungerà la comunione dei beati tra loro...
    Si tratterà, infine, di una gioia senza ombre e senza timori. Le anime beate, vedendo direttamente Dio, ne conosceranno all'evidenza la sua fedeltà e saranno certe che il bene posseduto non verrà loro tolto mai.
    Saranno totalmente sicure di essere salve e beate "per sempre".

    "...NELL'ATTESA DELLA TUA VENUTA"
    "Il Figlio dell'Uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni" (Mt 16,20).
    Solo chi è credente e riconosce che Gesù è il "Signore", può capire il senso profondo delle parole del Credo che dicono: "E di nuovo verrà nella Gloria".
    Esse indicano la seconda venuta di Cristo Giudice Glorioso in contrapposizione alla prima, quando nella umiltà e nel silenzio, nacque a Betlemme e venne posto in una mangiatoia.
    Questa seconda venuta è così importante che viene ricordata nella Messa, non solo quando si recita il Credo, ma anche dopo la consacrazione, quando il sacerdote dice "mistero della fede". Allora l'Assemblea così proclama: "Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell'attesa della tua venuta".
    Per comprendere la portata di questa seconda venuta sono illuminanti tre concetti espressi da altrettante parole: "Parusìa, Giudizio, Attesa".
    Nei testi originali del N.T. la seconda venuta di Cristo viene solitamente espressa con un termine greco ricco di significato, ed intraducibile. Questo termine è: "Parusia".
    Nel mondo ellenistico questa parola veniva usata per indicare l'arrivo di un re o di un condottiero che come liberatore, poteva anche dare inizio ad un'era nuova.
    Ora questo termine, che non ha l'equivalente in altre lingue, si prestava molto bene per indicare la seconda venuta di Cristo, che è una venuta nella gloria e che da inizio a un mondo nuovo. Del resto l'evangelista Matteo così introduce la scena del Giudizio Universale: "Quando il Figlio dell'Uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli si siederà sul trono della sua gloria. Allora..." (Mt 25,Iss).
    Il termine "Parusìa", col suo pregnante significato, serviva così, da solo, a richiamare tutto quello che in quel giorno accadrà.
    Oltre al Giudizio Particolare, che ha luogo immediatamente dopo la dipartita di ciascuno da questo mondo, alla fine dei tempi avrà luogo il "Giudizio Universale". E qui nasce un interrogativo: quale compito ha il Giudizio Universale se le anime sono già state definitivamente giudicate nel "Giudizio Particolare"?
    Una novità esiste. Essa non sta tanto in ciò che tocca direttamente il singolo, che già conosce quanto ha meritato, ma piuttosto nella manifestazione compiuta del piano di Dio e della storia della salvezza.
    Questo sarà possibile quando tutti gli uomini avranno percorso il loro cammino terreno, quando tutti avranno fatto le loro scelte, corrispondendo più o meno generosamente ai doni di Dio, quando... il Signore "avrà fatto nuove tutte le cose". Allora si comprenderà il senso della Storia. Solo in quel giorno, quando non mancherà più nessuno, tutto sarà chiaro e luminoso agli occhi dell'intera umanità
    Ma questo "giorno" della seconda venuta del Salvatore con quale atteggiamento di spirito deve essere atteso?
    Il termine "attesa", così come lo troviamo nella sacra Scrittura, ci invita soprattutto ad un atteggiamento di "impegno fiducioso".
    Quando S. Pietro avverte che "noi aspettiamo nuovi cieli ed una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia" subito aggiunge: "Perciò carissimi, nell'attesa di questi eventi, cercate di essere senza macchia, e irreprensibili davanti a Dio, in pace". (2Pt 13,14).
    Così quando diciamo "aspettiamo" non intendiamo parlare dell'attesa di chi, seduto su una panchina, aspetta il treno leggendo il giornale, ma un'attesa fattiva, trepida, ricca di desiderio... E per riprendere un'immagine biblica, potremmo ricordare quella di una giovane che prepara la casa nell'attesa dello sposo.
    Se poi si pensa al destino dell'uomo chiamato a vivere in comunione con Colui che è la fonte della vita e della beatitudine, nella cornice dei Nuovi Cieli e della Nuova Terra, allora si capisce come nessuno più del credente possa avere motivi per impegnarsi in questa vita, dal momento che una vita terrena, anche molto breve, vale un'eternità beata.
    E l'impegno deve essere fiducioso e carico di speranze, anche perché nel nostro cammino possiamo essere soccorsi dall'aiuto dei santi del Cielo. La Chiesa, infatti, ci esorta a "invocarli umilmente e a ricorrere alle loro preghiere, al loro potere ed aiuto per ottenere benefici da Dio, per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore che è l'unico Redentore e Salvatore" (L.G. 50). Particolarmente potente ed efficace è poi l'intercessione di Maria SS. che già in terra ottenne da Gesù l'anticipazione del suo primo miracolo.
    Questa è l'attesa di chi ama Cristo e desidera l'avvento del suo Regno. Questo è lo spirito che la Chiesa vuole ispirare ai fedeli quando, dopo la consacrazione, li invita a dire tutti insieme: "...nell'attesa della tua venuta".
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    NUOVI CIELI E NUOVA TERRA
    E Colui che sedeva sul trono disse: Ecco io faccio nuove tutte le cose". (Ap 21)
    Quando alla fine dei tempi noi risorgeremo a immagine di Cristo risorto e glorioso, ci troveremo non solo uniti a Lui, ma anche a far parte di quel mondo futuro che viene biblicamente indicato con l'espressione: "Nuovi Cieli e Nuova Terra".
    Un testo sicuro e sintetico che ufficialmente raccolga e presenti il pensiero della Chiesa sul mondo futuro lo troviamo al n.39 della Costituzione "Gaudium et Spes" che così recita:
    "Ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l'umanità e non sappiamo il modo in cui sarà trasformato l'universo. Passa certamente l'aspetto di questo mondo deformato dal peccato. Sappiamo, però, dalla rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia e la cui felicità sazierà sovrabbondamente tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini...".
    Questo testo, così importante per la sua ufficialità e la sua sintetica chiarezza, afferma, a proposito del rapporto tra il mondo presente e quello futuro, sia ciò che possiamo conoscere, sia ciò che sfugge alla nostra attuale conoscenza.
    1) Non sappiamo "il tempo" in cui avranno fine la terra e l'umanità, sappiamo però che finiranno perché "passa certamente l'aspetto di questo mondo deformato dal peccato".
    2) Neppure conosciamo il "modo" in cui sarà trasformato l'universo. Ma con questa affermazione il Concilio richiama il fatto che nel passaggio da questo mondo a quello futuro non solo ci sarà una "discontinuità", si avrà cioè qualcosa di profondamente nuovo, ma si avrà anche "continuità", cioè un qualcosa che passa tra un prima ed un poi. E tutto avverrà in analogia con la nostra risurrezione, anzi in analogia con la risurrezione di Gesù che ha lasciato il sepolcro vuoto, per risorgere a vita nuova, secondo le parole dell'angelo: "Non è qui, ma è risorto come aveva detto" (Mt 28,6; cf Lc 24,6).
    Il testo conciliare fa presente un altro aspetto relativo a quel che accadrà, e cioè che la fine della terra e dell'umanità meritano di essere considerate simultaneamente. Dobbiamo ritenere che non finirà prima l'umanità e poi il mondo che oggi l'ospita, ma che tutto accadrà simultaneamente. La Terra "Nuova" verrà trasformata per l'uomo "nuovo", glorioso a immagine di Cristo. Basta vedere, a questo riguardo, quanto ancora dice il Concilio nella Lumen Gentium al n. 9, e in modo ancora più chiaro al n. 48 della stessa Costituzione: "La chiesa... non avrà il suo compimento se non nella gloria del Cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose (At 3,21) e col genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente congiunto con l'uomo... sarà perfettamente restaurato in Cristo" (cf Ef 1,19; Col 1,20; 1Piet 3,1013).
    Raccogliendo i dati che la Divina Rivelazione offre circa la fine del mondo, e considerandoli con attenzione, non è difficile scoprire una loro singolare convergenza. In un solo momento verranno a darsi convegno: la fine dell'umanità, la fine del mondo e la venuta di Cristo glorioso e giudice.
    Egli anzi si manifesterà come il Protagonista che chiuderà la scena di questo mondo e darà inizio ai Nuovi Cieli e alla Nuova Terra. La figura che dominerà in quel giorno sarà, dunque, quella di Cristo, Giudice Glorioso. Per questo quel giorno è stato indicato dalle Scritture e dalla tradizione come "Giorno del Signore".
    Anche se l'avvenimento sfugge alla nostra immaginazione, e la nostra fantasia non sa come orientarsi ad ipotizzare ciò che effettivamente accadrà, tuttavia possiamo ora meglio comprendere quanto continuamente ripetiamo nel Credo:
    "E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine".

    COSA ACCADE TRA LA MORTE E LA RISURREZIONE UNIVERSALE
    Condizione Intermedia
    Abbiamo visto come alla fine del mondo, in concomitanza con l'apparire dei "Nuovi Cieli e della Nuova Terra", avrà luogo la nostra risurrezione.
    Ma proprio per il fatto che molti sono già morti e che molti morranno prima che questo mondo finisca, nasce spontaneo l'interrogativo: "Che cosa avviene tra la morte e la risurrezione universale?".
    È un interrogativo importante ed interessante che ha sollecitato a più riprese il Magistero della Chiesa ad intervenire per dare alcune precise indicazioni proprio e specialmente circa quel che avviene tra la morte del cristiano e la risurrezione universale.
    Il discorso su ciò che attende l'uomo subito dopo la morte e prima della risurrezione finale veniva solitamente indicato come «Escatologia intermedia»: «Escatologia» perché si tratta pur sempre di ciò che attende l'uomo alla fine della vita terrena; «intermedia» perché si tratta di una situazione che si colloca tra il momento della morte e il giorno della risurrezione. Dal momento che questa situazione è però destinata, essa stessa, a cessare, giustamente ai nostri giorni molti preferiscono parlare di "condizione intermedia".
    Iniziamo a parlarne prendendo in considerazione quell'enigma, al quale molti vorrebbero mai pensare, ma che è ineliminabile e che si chiama «morte»». Su di essa la Divina Rivelazione ha preziose ed esclusive notizie da dirci, atte a portare una desiderata luce alla nostra mente ed a suscitare fiducia e speranza nel nostro cuore.

    IL PASSAGGIO DA QUESTA ALL'ALTRA VITA
    La Morte
    "Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima" (Mt 10,28).
    Con la parola "morte" non tutti intendono la stessa cosa.
    Per alcuni la morte dell'uomo è semplicemente la sua fine. E non è difficile sentir dire che la vita dell'uomo è come una candela che, esauritasi, si spegne, e poi tutto è finito.
    Fino a che punto ne siano convinti quelli che parlano a questo modo non è facile dirlo. Anche nel loro cuore di tanto in tanto emerge il desiderio di qualcosa che vada oltre.
    È certo, comunque, che una visione della vita che si chiuda definitivamente con la morte conduce ad una afflizione senza speranze ed ad una amarezza senza consolazioni.
    Per altri la parola "morte" indica sì la fine di questa vita terrena, ma non esclude che `dopo' ci sia ancora qualcosa. C'è una ripulsa della morte come fine totale, e l'apertura del cuore ad una misteriosa speranza. Qui gli atteggiamenti sono molto diversi, e spesso coloro che si trovano in questa situazione desiderano incontrare qualcuno che offra loro idee chiare e sicure che l'illuminino.
    C'è poi la posizione dei veri credenti, i quali, alla luce della Divina Rivelazione, autenticamente proposta dalla Chiesa, credono fermamente che la morte segna ad una tempo la fine di questa vita terrena e l'inizio della vita vera in comunione con Dio, gli angeli e i santi. Questi sono nel vero.
    Essi fanno propria l'illuminante e lapidaria affermazione, spesso proposta dalla liturgia: "Vita
    mutatur, non tollitur": con la morte "la vita non viene tolta ma solamente trasformata".
    E cioè: l'uomo continua a vivere, passando dal grembo di questo mondo alla luce del mondo nuovo, che avrà la sua manifestazione compiuta alla fine dei tempi con la risurrezione finale. Intanto però il soggetto entra in piena comunione di vita con Cristo Signore per partecipare "alla sua festa nuziale".
    Ecco perché la Chiesa festeggia i Santi nel giorno anniversario della loro dipartita da questo mondo. E così il giorno della loro "morte", è in verità, e soprattutto, il giorno della loro nascita alla vita vera, piena e beatificante.
    Senza dubbio anche il vero credente soffre quando perde una persona cara; ma a questo sentimento, proprio di tutti gli uomini, se ne aggiunge un altro di fiduciosa speranza: egli sa di poterla rivedere, così come gli Apostoli hanno potuto rivedere e toccare Gesù risorto.
    La morte dunque riguarda solo il corpo, solo ciò che è raggiungibile coi sensi, e che fa parte di questo mondo che deve passare. Ma quando Iddio farà nuove tutte le cose, questa morte temporale non avrà più spazio. Risorti ad immagine di Cristo, parteciperemo alla sua vita gloriosa anche con un corpo trasfigurato che non potrà più morire.

    INCONTRO CON CRISTO DOPO LA MORTE
    Il "Giudizio Particolare"
    "...È stabilito per gli uomini che muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio" (Ebr 9,27)
    Dopo la morte e prima della risurrezione finale ogni uomo continua a vivere, o più precisamente l’"io" di ciascuno continua a `sussistere' "pur mancando nel frattempo del complemento del suo corpo". Così - come abbiamo visto - si esprime il documento della "Sacra Congregazione per la dottrina della fede". E per indicare questo modo di esistere la Chiesa adopera la parola "anima", consacrata dall'uso della Scrittura e dalla Tradizione.
    Nasce allora l'interrogativo: in quale situazione vengono a trovarsi le anime dopo la morte e prima della risurrezione finale? Da sempre la Chiesa, autorevole interprete della parola di Dio, insegna che: chiudendosi con la vita terrena il tempo per meritare, l'anima, se è trovata in grazia di Dio, è destinata al Paradiso; se viene trovata recidiva nel peccato viene privata della visione di Dio e questa pena si chiama Inferno. La Chiesa "crede, inoltre, per quanto concerne gli eletti, ad una loro eventuale purificazione che è preliminare alla visione di Dio": è quanto la Chiesa intende quando parla di Purgatorio.
    Questo diverso esito implica logicamente il cosiddetto "Giudizio Particolare", mediante il quale l'uomo viene "immediatamente" destinato allo stato che gli si addice.
    Nella parabola del ricco epulone Lc 16,19-31 vediamo che tanto il ricco quanto il povero Lazzaro raggiungono "subito" la meta loro assegnata, e nel caso e Buon ladrone vediamo che Gesù stesso gli rivolge queste consolanti parole: "In verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso".
    Il compito di Giudice, poi, che nell'A.T. era stato presentato come proprio di Jahvè, nel N.T. è attribuito al "Figlio dell'Uomo", ovvero al Figlio di Dio fatto uomo. A questo riguardo meritano d'essere tenute presenti le chiare e precise espressioni dell'apostolo Paolo che scrive: "Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male" (2Cor 5,10).
    Non bisogna però pensare che il Signore, nel suo giudizio, lasci da parte la sua misericordia. Dio non cessa mai di essere lo stesso: sempre perfettamente giusto e, ad un tempo, sempre infinitamente misericordioso.
    Gesù vuole che tutti si salvino, ed è morto per tutti. Ma perché gli uomini si salvino, occorre che si lascino salvare. Il Giudizio metterà in chiaro il loro comportamento. E questo vale anche per gli appartenenti alle altre religioni perché Iddio guarda il cuore. A restare fuori dal regno della beatitudine non saranno tanto quelli che il Giudice Divino avrà escluso, ma piuttosto coloro che si sono esclusi da sè.
    Ognuno di noi deve allora aver timore non tanto di quello che accadrà in quel giorno, ma piuttosto del pericolo che corriamo adesso, quando non corrispondiamo alla grazia di Dio, e soprattutto del rischio di allontanarci dal Signore al punto di non poter usufruire della sua misericordiosa bontà.

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    INTRODUZIONE
    Con la sola ragione è difficile, e spesso impossibile, conoscere che cosa ci attende dopo questa fuggevole vita.
    C'è, senza dubbio, un "istinto del cuore" che conduce l'uomo a "respingere l'idea di una totale rovina e di un annientamento della sua persona". C'è anche la costatazione che l'attuale prolungamento della vita terrena non riesce a soddisfare "quel desiderio di vita ulteriore che sta dentro invincibile nel suo cuore" (cf Gaudium et Spes n.18). Noi infatti, siamo stati creati per l'eternità.
    In questa situazione di incertezza ci viene però incontro la Divina Rivelazione, mediante la quale possiamo conoscere in modo sicuro quello che Dio ha predisposto per noi.
    Per indicare il mondo che Dio ci ha preparato, si usano espressioni diverse, ora si parla di "Vita Eterna", ora di "Novissimi", ora dell' "Aldilà", ora di escatologia, ora di via Futura.
    Anche quest'ultima espressione può andare bene, e viene usata spesso perché per noi, che siamo ancora in questo mondo, l'aldilà è certamente futuro.
    Tuttavia quel mondo che incontreremo in futuro e che ci attende esiste già.
    Non solo esiste, ma è un mondo che ha un ordine e che ha un fulcro attorno al quale tutto si muove, e dal quale tutto ha consistenza. Questo fulcro è Cristo Risorto, che è stata la prima e la principale verità che deve predicare la Chiesa. Cominceremo allora a fissare la nostra attenzione sulla "Risurrezione di Gesù" per metterne in evidenza gli aspetti fondamentali. Da essa prenderanno luce tutte le altre realtà del mondo futuro che ci riguardano, a cominciare dalla nostra risurrezione. E dalla Risurrezione di Gesù, come attraverso uno spiraglio, potremo raggiungere e conoscere importanti caratteristiche dell'Aldilà ed i profondi legami che lo uniscono a questo mondo. Potremo così avere una visione d'insieme del mondo che ci attende e dei rapporti meravigliosi e consolanti che ci legano con coloro che là ci hanno preceduto.

    CRISTO È RISORTO
    `...Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno" (Mt 16,21)

    Gesù è l'unico uomo la cui vicenda terrena si è conclusa con la risurrezione.
    Tutti i libri del Nuovo Testamento ne danno testimonianza, tutti gli Apostoli ne hanno fatto l'oggetto principale del loro annuncio, tutte le chiese hanno proclamato questa verità ed ancora oggi nessuna chiesa può far parte del Movimento Ecumenico se non la professa.
    È interessante notare come, davanti alle 120 persone che costituivano la Chiesa Nascente, Pietro, indicando le prerogative che doveva avere chi avrebbe occupato il posto lasciato libero da Giuda, abbia così dichiarato: "...si rende necessario che uno dei tanti che furono della nostra compagnia durante la vita in mezzo a noi del Signore Gesù, dal giorno del suo battesimo per mano di Giovanni fino alla sua Ascensione, venga costituito insieme a noi testimone della sua `risurrezione' (At. 1,22-23).
    La risurrezione di Gesù è infatti il punto culminante della sua vita, che spiega e dà senso a tutto quello che Egli ha detto ed ha fatto, ed aiuta a capire il valore della sua morte redentrice: gli uomini lo hanno messo ingiustamente a morte, ma Dio lo ha glorificato. Essa è l'inizio, nella speranza, di quello che Dio ha promesso a tutti noi. Per questi motivi la risurrezione di Gesù sta al centro dei Messaggio Cristiano.
    Ma sappiamo noi esattamente che cosa intende insegnare la Chiesa quando annuncia che Cristo è risorto?
    La Chiesa insegna che Cristo, dopo essere morto in croce e dopo essere stato sepolto, ha ripreso a vivere con tutto il suo essere: anima e corpo. Ha ripreso a vivere, non tornando indietro, come nei casi delle tre risurrezioni operate da lui nella vita pubblica (la risurrezione della figlia di Giairo, quella del figlio della vedova di Naim e dell'amico Lazzaro), ma andando avanti, portandosi così nell' "Aldilà" in una inaspettata novità d'esistenza.
    Cristo è entrato per primo, con tutto il suo essere, nel mondo nuovo e lo ha inaugurato.
    Il corpo del Risorto ha una sua peculiare misteriosità perché non è un fantasma, e neppure presenta le stesse proprietà possedute nella vita terrena. S. Paolo parla di "corpo spirituale". "Corpo" perché può essere visto, guardato, toccato; "spirituale" perché non può essere soggetto ai condizionamenti spaziotemporali di questo mondo: può apparire e scomparire, entrare e uscire dal cenacolo a porte chiuse.
    Si suol dire che il Risorto è una realtà "metastorica", perché vive al di là della storia, in una situazione gloriosa, ove sofferenza e morte sono debellate per sempre. Ma si deve anche dire che è anche "storica" perché realmente accaduta. Significativo è questo testo: Al mistero della risurrezione di Gesù dai morti, per quanto indescrivibile con parole umane, è un fatto obiettivo e storico. Esso è accaduto e si è compiuto entro la storia di questo mondo, ma nello stesso tempo l'abbraccia tutta e la supera. Per questo bisogna dire che, oltreché storica, la risurrezione è anche metastorica e sovrastorica»» (Editoriale, "La risurrezione di Cristo e il futuro dell'uomo", in La Civiltà Cattolica, 132-1981,109). Data la fondamentale importanza della risurrezione di Gesù per comprendere il mondo futuro, conviene fin d'ora fare alcune precisazioni.
    1. Prima di tutto va precisato che Gesù è vivo, ma non semplicemente nel senso che, essendo ricordato ed amato da un stragrande numero di uomini e di donne, rimane vivo nei loro cuori; è vivo anzitutto e soprattutto nel senso che è vivo proprio lui. Proprio come ne parlano gli Atti degli Apostoli: "Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio" (At 1,3).
    2. Inoltre Gesù "è apparso ad essi vivo", non già come un fantasma o come un angelo, ma proprio col suo corpo, che si è reso tangibile agli Apostoli, mostrando i segni delle piaghe nelle mani e nel costato.
    3. Va inoltre sottolineato che il Corpo del Cristo Risorto è in continuità con lo stesso corpo posto nel sepolcro.
    Non si tratta di un corpo totalmente nuovo venuto dal Cielo. Tutti i Vangeli parlano del sepolcro vuoto, ed il fatto che Cristo abbia voluto mostrare le sue piaghe sta a significare che si è realizzato un passaggio, misterioso quanto unico nella storia, un vero passaggio, una trasformazione tra il corpo posto nel sepolcro e quello risorto.
    "È risorto, non è qui" disse l'angelo alle donne (Mc.16,16). E cioè: proprio perché è risorto non può essere qui.
    Si comprende allora perché la Chiesa nel periodo pasquale ci inviti ad esprimere la nostra gioia rivolgendoci a Maria con questa parole: "Rallegrati o Maria, perché colui che hai generato è risorto. Come aveva detto. Alleluja".
    Su questi fondamentali aspetti, e su altri che richiameremo più avanti, siamo chiamati a riflettere per comprendere l'elevatezza del nostro futuro destino e del mondo che ci attende.
    NOI TUTTI RISORGEREMO
    "Gesù le disse: tuo fratello risusciterà. Gli rispose Marta: so che risusciterà nell'ultimo giorno... " (Giov 11,23-24)Sin dai primi tempi del Cristianesimo i Padri hanno mirabilmente riassunto l'opera salvifica di Gesù con questo detto: "Il Figlio di Dio si è fatto uomo perché gli uomini diventassero figli di Dio".
    Elevati alla dignità di figli di Dio, gli uomini hanno così acquistato il diritto di partecipare allo stesso destino di Cristo, e più precisamente alla sua risurrezione gloriosa. Essa fa parte essenziale di un unico piano divino. La rivelazione della nostra risurrezione, già resa nota nell'A.T. e già accolta dal pio ebreo, è stata poi da Cristo stesso riaffermata e perfezionata, sia attraverso le sue parole, sia attraverso l'avvenimento della sua risurrezione.
    Più volte Gesù ha avuto modo di affermare questo nostro destino attraverso il suo insegnamento orale. Ed è quanto mai forte e chiara la sua presa di posizione nella discussione con gli appartenenti alla setta dei sadducei, che non ammettevano la risurrezione e che pensavano di giustificarsi portando obiezioni poco serie. Gesù le ha vanificate senza mezzi termini, stigmatizzando, sia la loro incapacità di saper interpretare le scritture, sia la loro mancanza di conoscenza della potenza di Dio, sia il loro concetto troppo materialistico della risurrezione. Concluse, quindi, con queste parole: "Quanto poi ai morti che risorgono, non avete mai letto nel libro di Mosè, nel passo del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Non è il Dio dei morti, ma dei viventi! Sbagliate di molto" (Mc 12,18-27).
    Ma è anche e soprattutto da quello che Gesù ha fatto, e precisamente dall'evento della sua risurrezione, che ci vengono ulteriori lumi per meglio comprendere la nostra.
    Cristo che, risorgendo, è entrato nell'aldilà con un corpo trasfigurato, insegna che anche nella nostra risurrezione ci sarà una trasformazione che supererà tutte quelle possibili a questo mondo. Si tratta, infatti, di un avvenimento che nessuno può immaginare.
    È tuttavia particolarmente interessante ed illuminante, anche dal punto di vista della credibilità, quanto scrive San Paolo nella sua prima lettera ai Corinti, dove cerca di rispondere ad alcune obiezioni ricorrendo all'immagine del seme che poi diventa pianta. "Ma qualcuno dirà: come risorgono i morti? E con quale corpo?" Insensato! Quello che tu semini non riprende vita se prima non muore. E quel che tu semini non è un corpo che dovrà nascere, ma un nudo chicco di frumento, ad esempio, o di qualsiasi altra specie. E Iddio gli dà un corpo secondo che ha voluto e a ciascun seme il proprio corpo. Così è pure per la risurrezione dei morti. Si semina un corpo preda della corruzione e risorge dotato di incorruttibilità; lo si semina spregevole e risorge in splendore; lo si semina soggetto a debolezza e risorge investito di forza; si semina un corpo in condizione terrena e risorge un corpo spirituale..." (1Cor 15,35-38.42-44).
    Considerando il passaggio dal seme alla sua pianta, siamo anzittutto aiutati a cogliere una importantissima duplice caratteristica che riguarda il passaggio dal corpo terrestre a quello celeste: si tratta di ciò che in teologia viene indicato come rapporto di "continuità discontinuità". Nella risurrezione c'è qualcosa che cambia (discontinuità) e qualcosa che permane (continuità).
    Il mutamento, "la discontinuità", avviene nella linea della spiritualizzazione e della sublimazione del corpo. I corpi risorti, liberati dalla corruttibilità e dalla debolezza, saranno simili al corpo di Cristo glorioso; allora il corpo sarà partecipe dello splendore dell'anima, non ci sarà contrasto tra apparenza e realtà: bontà e bellezza si equivarranno...
    C'è poi l'aspetto della "continuità", che indica il perdurare di qualcosa di misterioso per cui possiamo affermare con il Con. Lat. IV (1215) che "Tutti risorgeranno coi loro propri corpi, quelli che posseggono ora". I teologi hanno cercato di spiegare in modi diversi come questo possa accadere. Ma, al di là delle ipotesi teologiche, riteniamo sempre meritevole di attenta considerazione, quanto già scriveva papa san Gregorio Magno: "Perché vuoi comprendere con la ragione in quale modo ritornerai, tu che non sai in che modo sei venuto? Lascia alla potenza del tuo Creatore ciò che di te stesso non riesci a capire. Certamente infatti, poiché tu sei stato fatto dalla terra, e la terra dal nulla, tu sei stato creato dal nulla. Affinché dunque non disperi della risurrezione della carne, pensa saggiamente che è più facile a Dio riparare ciò che era, che aver fatto ciò che non era. Se poi non riesci a comprendere con la ragione il fatto della risurrezione, rifletti quante cose non comprendi come siano, e tuttavia non metti in dubbio che esistano" (In Ezecbielem, II, Homelia VII, cap. 8-9 PL 76,1033, p.191).
  7. .
    LA PAZIENZA

    La pazienza è necessaria, dice S. Paolo, per conseguire la vita eterna. In altro luogo lo stesso Apostolo ci avverte che la nostra pazienza dev'essere così grande da fare di tutta la nostra vita un continuo esercizio di pazienza: in patientia vestra possidebitis animas vestras. Ma ditemi, figlie mie, questa pazienza tanto necessaria, credete voi che sia la virtù più praticata dai cristiani? Credete che tutti siano pazienti? Io non parlo solo delle persone in genere, ma parlando anche di persone devote, di religiose, credete voi che queste siano tutte molto impegnate nella pratica della virtù della pazienza? Che tutte ugualmente accolgono con serenità e con animo tranquillo la tribolazione? Che tutte sopportino con umile rassegnazione le avversità ed i contrattempi che loro succedono? Ne dubito grandemente. Poiché l'angelo spedito dal cielo a confortare Gesù nell'Orto del Getsemani, per mitigare il dolore e l'angoscia dell'agonizzante Signore, lo confortò invece a patire di più per amor dell'uomo, così io stasera voglio alquanto mitigare l'affanno e l'angustia che ognuno porta nel cuore per la tribolazione, ed esortare tutti a sopportare pazientemente ogni avversità, ogni contrasto, ogni male che ci possa accadere: sia per le strettezze in cui forse dobbiamo vivere; sia per le malattie con cui siamo o saremo visitati dal Signore; sia per le calunnie e le malvagità altrui; sia per la morte di parenti stretti o di amici cari; o per qualunque altro motivo. Vi mostrerò brevemente che la tribolazione torna sempre a nostro vantaggio spirituale e a profitto dell'anima nostra. Ho detto che la tribolazione, da qualunque parte venga, ci è sempre utile e vantaggiosa. Infatti, se siamo peccatori, la tribolazione è balsamo che ci riscatta dalla colpa: se siamo tiepidi, è fuoco che ci riscalda e ci purifica dai difetti; se siamo fervorosi, è farmaco che ci preserva dal cadere in imperfezioni. In qualunque stato noi ci troviamo, non possiamo mai aver motivo alcuno di rattristarci e di affliggerci dai mali temporali con cui Dio spesso ci mette alla prova.
    Il peccato, dice S. Giovanni Crisostomo, è per l'anima una piaga purulenta; la tribolazione è il ferro medicinale con cui si cura e si elimina la parte infetta. Come colui che ha una parte del suo corpo in suppurazione, se non usa i rimedi adatti, cade via via in mali più gravi; così l'anima peccatrice se non venisse purificata dalla tribolazione, andrebbe a poco a poco a cadere nell'estremo della miseria, che è la sua eterna perdizione. Ora, se l'infermo, per prolungare anche di pochi giorni, la vita del corpo, soffre volentieri che il chirurgo curi la carne malata e recida la parte infetta, non dovremo noi soffrire con pazienza che Iddio curi le piaghe dell'anima nostra con avversità e travagli, affinché non ci portino alla morte eterna? Chi fu che aprì gli occhi e condusse a ravvedimento gli inumani fratelli di Giuseppe, se non la tribolazione? Quando Dio li percosse con l'avversità e con la miseria, allora conobbero la crudeltà e la barbarie che avevano commessa contro l'innocente fratello nel calarlo, prima nel fondo di un'oscura cisterna, e poi nel venderlo a mercanti stranieri, come schiavo. Quando fu che il superbo Nabucco abbassò la testa, adorando la Divina Maestà e ne magnificò la grandezza? Quando, a castigo della sua superbia, si vide condannato da Dio a mangiar l'erba del bosco come i giumenti. Quel giovane del Vangelo, fuggito con tanta ingratitudine dalla casa di suo padre, voglio dire il figlio! prodigo, chi lo indusse a ritornare a casa? Non fu che la fame, la nudità, l'estrema miseria? Non furono queste che gli fecero sgorgare dagli occhi lacrime di pentimento, che lo ricondussero fra le braccia dell'addolorato genitore e che gli fecero esclamare che non era più degno di essere chiamato suo figlio? Dice S. Agostino che, per i peccatori, la tribolazione è la vera medicina che Dio, come medico pietoso, porge loro per sanare le loro piaghe e salvarli. Dunque, per quanto sia amara la medicina, noi, consapevoli di essere colpevoli, dobbiamo prenderla volentieri dalle mani benigne del Signore, ingoiarla con pace, senza turbamenti, senza tristezza e senza lamentele, altrimenti ci fabbricheremo la nostra rovina con quegli stessi mezzi con cui Dio cerca di salvarci.
    Se poi siamo giusti, ma tiepidi e accidiosi nel bene, invece d'inquietarci delle controversie che ci capitano, dovremmo ringraziare il Signore, il quale ce le manda proprio per distaccarci dal mondo, dalle vane consolazioni di quaggiù, da cui ci lasciamo così spesso allettare e per cui viviamo così lontano dalla religiosa perfezione. Iddio fa con noi come le madri con i loro teneri figli: esse volendo svezzarli, amareggiano il latte, affinché se ne allontanino. Così Dio, con le tribolazioni che ci manda, amareggia i miseri beni di questa terra, a cui siamo tenacemente attaccati, perché ce ne allontaniamo e sorgiamo da quella dannosa tiepidezza che ci porterebbe, quasi senza avvedercene, a lacrimevoli sciagure. Guai a noi, se le cose terrene ci andassero sempre bene, se non avessimo mai contrasti o avversità di sorta; noi andremmo certo di male in peggio: dalla tiepidezza alla freddezza e poi alla totale rovina. E' dunque, nostro dovere che in tempo di tribolazione, sottomessi ai divini voleri, adoriamo i decreti della Provvidenza divina, che tutto dispone per il nostro bene; anziché rattristarci per le croci che ci capitano, consoliamoci, perché mentre noi viviamo così poco preoccupati del nostro profitto spirituale, il Signore pensi Lui stesso al nostro vero bene con tanta amorosa sollecitudine.
    Finalmente, se noi siamo giusti e fervorosi nel divino servizio, allora non solo dobbiamo aver pazienza nei travagli, ma dobbiamo stimarli grandi benefici. Sono essi infatti il crogiolo dove le anime buone si purificano dalle loro imperfezioni, si rivestono di luce e di nuovo splendore. Lo dice chiaro l'autore dell'Ecclesiastico: come l'oro e l'argento si purificano col fuoco, così l'uomo si purifica nelle avversità, se soffre con paziente umiltà, tutto ciò che gli accade. Gli arboscelli, nati sulla cima di una montagna, sono i più esposti a tutte le ingiurie del tempo, ma nello stesso tempo, essendo combattuti dai venti, acquistano maggior fermezza, perché quanto più sono scossi, tanto più gettano profonde le radici. Così la virtù: provata da persecuzioni, da malignità e da calunnie, si radica più profondamente nell'anima, purificata da tentazioni, da malattie, da avversità, diviene più perfetta. Né mi venite a dire che l'essere tribolati, può sembrare di non essere accetti a Dio e di non essere da Lui amati; perché è tutto il contrario: proprio perché siamo accetti a Dio, Egli ci flagella e ci percuote con le tribolazioni. Come il maestro aggrava di maggiori compiti gli alunni più abili, perché spera di trarne maggior profitto; come il capitano prepone alle imprese più ardue i soldati più forti, perché spera un esito più felice; come il padre è più severo con i figli migliori, per renderli più morigerati e più virtuosi, così Dio espone alle prove più dure e più tormentose, perché vuole renderli robusti nella virtù, coloro che ritiene per soldati più fedeli nella sua milizia, per discepoli più diligenti nella sua scuola, per figli più cari nella sua casa. Voi vedete, infatti, un Abramo, un Isacco, un Tobia, un Giobbe, un Daniele, un Davide, tutti personaggi santissimi, ma tutti passati attraverso il crogiuolo della tribolazione. Quando, dunque, il Signore ci affligge con qualche avversità, perché viviamo in malinconia e tristezza, in sgomento ed affanno? Perché non tolleriamo ogni cosa con pazienza e rassegnazione, sapendo che Iddio ci tratta così non per odio, ma per amore; non per il piacere di vederci afflitti, ma per desiderio di vederci perfetti? Su, dunque, facciamoci coraggio, siamo virtuosi; e se le motivazioni fin qui addotte non bastano ancora a farci sopportare serenamente ogni travaglio, c'induca l'esempio di Gesù Cristo, questo mirabile Dio Crocifisso.
    Egli, dice S. Pietro, ha patito anche per questo scopo; ha voluto camminare per una strada lastricata di spine, affinché fossimo incoraggiati a seguirne le vestigia. Cristo, dice il Vangelo, ha patito per noi e ci ha lasciato l'esempio, affinché seguissimo le sue orme. Grande incoraggiamento è questo per soffrire in pace ogni male. Quale grave tribolazione può mai accaderci che il nostro Salvatore non l'abbia patita? Egli fu calunniato, beffato, schernito, deriso, maltrattato e maledetto da tutti; Egli fu tradito, rinnegato dai suoi stessi discepoli, flagellato crudelmente, coronato di spine, condannato a morte e crocifisso ingiustamente.
    Quale grave avvenimento, dunque, potrà accaderci nella nostra vita, tale da non potersi soffrire con rassegnazione e pazienza, se ricordiamo le pene atrocissime di Gesù Cristo, Signor Nostro? Se ha patito tanto per noi, non potremo noi soffrire alcuna cosa per Lui? Non ce lo dice Egli stesso che chiunque vuol essere suo discepolo deve prendere ogni giorno la sua croce sulle spalle e seguirlo con generosità, con coraggio, sulla strada dei patimenti? Perché, dunque, piangere, rattristarsi, lagnarsi, sotto il peso della tribolazione, invece di portare la croce con umile e paziente rassegnazione? Pensiamo spesso a quanto Gesù ha patito per nostro amore e alla invitta pazienza con cui ha patito: in tempo di avversità, teniamo lo sguardo della mente fisso in Lui, gemente sotto la croce, agonizzante sopra la croce; trafitto dalle spine, piagato dai flagelli, perseguitato a torto, condannato ingiustamente, strapazzato con percosse o con parole. Confrontate con le sue, le vostre pene, vedete che si desterà in voi un certo desiderio d'imitazione che vi farà sembrare più soavi o, perlomeno, meno gravi, le vostre sofferenze.
    Un certo giovane, cresciuto tra le comodità e le morbidezze della sua casa, si fece religioso in un convento di vita austera, ma venuto meno in breve tempo il suo primitivo fervore, incominciò a sembrargli duro il pane, agro il vino, ruvida la veste, pesante l'ubbidienza, intolleranti i superiori e i compagni: sicché, vinto dal tedio, decise di tornarsene a casa sua. Depose l'abito religioso, si vestì da secolare e se ne fuggì. Per la strada gli comparve Gesù Cristo sotto l'aspetto di un bel giovinetto, il quale, seguendolo, gli diceva: « Fermati, aspettami, non fuggire, io voglio venire con te ». Quegli, temendo d'essere trattenuto, affrettava ancora di più il passo. Alla fine però, importunato dalle voci e dalle preghiere di quel giovinetto, si fermò. E Gesù allora: « Dove vai con passo così celere? ». Rispose l'ardito fuggitivo: « Sei forse mio padre che ti debba dire le cose mie? Che importa a te dove io vada? ». Ma il Signore, raddolcendolo a poco a poco con buone parole e importunandolo con interrogazioni, lo indusse a confessare che fuggiva dal monastero e se ne tornava a casa a vivere nel secolo. Allora Gesù si aprì la veste e gli mostrò la piaga del suo costato grondante sangue e gli disse: « Torna, mio caro, torna al monastero e, in avvenire, se il pane sarà duro, intingilo in questo fianco squarciato per tuo amore e ti sembrerà morbido; se il vino sarà acido, aggiungivi di questo sangue e ti parrà dolce; se la veste ti sembrerà ruvida immergila in questa piaga e la troverai morbida. In questo costato troverai amorosa l'ubbidienza, cari i compagni, dolce la ritiratezza, l'osservanza, l'austerità della vita ». A questa vista e a queste parole, il religioso, compunto, tornò indietro e facendo da quel momento la sua dimora nel costato del Redentore, soffrì con molta pazienza tutte le asprezze della vita comunitaria e passò santamente la vita.
    Ora, se noi faremo altrettanto, se anche noi avremo sempre, o almeno spesso, presenti nelle meditazioni le piaghe, i dolori, gli obbrobri, la povertà, le ingiustizie, i torti, i disprezzi sofferti da Gesù Cristo per amor nostro, credetemi che anche a noi sembreranno dolci le ingiurie, le persecuzioni, le infermità, i dolori, le mortificazioni della volontà e le privazioni della vita religiosa. Dove credete che abbiano trovata la forza i martiri per soffrire tanti strazi; gli apostoli per sopportare tante fatiche; gli anacoreti per tante mortificazioni; i confessori per vivere in tante angustie, se non dall'esempio dell'inalterabile pazienza del Salvatore? Fu Costui che diede a tutti i santi una tempra d'acciaio per la tolleranza di tanti mali. E noi, dinanzi a questa invitta pazienza di Gesù Cristo, non avremo la forza di sopportare con umiltà e in pace le tribolazioni della nostra vita? Amen.
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    La sorgente della pazienza.
    15. 12. Dobbiamo ora chiederci da dove procede la vera pazienza, degna del nome di virtù. Ci sono infatti di quelli che l’attribuiscono alle forze della volontà umana, non a quelle che ricevono dall’aiuto divino, ma a quelle che hanno dal libero arbitrio. Ora questo errore nasce dalla superbia ed è l’errore di coloro che abbondano, secondo le parole del salmo: Obbrobrio per quelli che abbondano e disprezzo per i superbi 20. Non è quindi questa la pazienza dei poveri, che non perisce in eterno 21. Quei poveri che la ricevono da quel ricco al quale si dice: Sei tu il mio Dio, perché non hai bisogno dei miei beni 22; dal quale viene ogni regalo ottimo e ogni dono perfetto 23; a lui grida il bisognoso e il povero che loda il suo nome, e chiedendo, cercando e bussando dice: Mio Dio, liberami dalla mano del peccatore, dalla mano di chi trasgredisce la legge e dell’uomo iniquo, perché tu sei, Signore, la mia pazienza, la mia speranza fin dalla mia giovinezza 24. Ma questa gente stracolma [di sé] non si degna di presentarsi mendicante dinanzi a Dio per ricevere da lui la vera pazienza. Vantandosi della loro falsa pazienza, vogliono confondere il proposito dell’indigente, la cui speranza è il Signore 25. Non pensano che, essendo uomini, coll’attribuire un risultato così grande alla propria volontà, che è volontà umana, incorrono nella condanna della Scrittura: Maledetto ogni uomo che ripone nell’uomo la sua speranza 26. Ma ecco che costoro in forza della stessa loro volontà accecata dalla superbia sopportano stenti ed asperità per non dispiacere alla gente o per evitare mali maggiori o per compiacere se stessi o per amore del loro orgoglio presuntuoso. In tal caso, riguardo alla [loro] pazienza bisognerebbe dire quel che l’apostolo san Giacomo dice della sapienza: Questa sapienza non proviene dall’alto, ma è sapienza terrena, animalesca, diabolica 27. Perché infatti non equiparare la falsa pazienza dei superbi alla loro falsa sapienza? In realtà la vera pazienza viene a noi da colui dal quale ci deriva la vera sapienza. A lui canta quel povero di spirito che dice: A Dio è soggetta la mia anima, perché da lui è la mia pazienza 28.

    Pazienza e volontà umana.
    16. 13. Essi rispondono facendo questi ragionamenti: Se la volontà umana senza alcun aiuto di Dio ma con le sole forze del libero arbitrio sopporta tanti mali gravi e orribili, sia nell’animo che nel corpo, per godere del piacere di questa vita mortale e dei peccati; perché allo stesso modo la medesima volontà con le stesse forze del libero arbitrio e senza aspettarsi alcun aiuto da parte di Dio, ma sufficiente a se stessa per la naturale possibilità, non sopporta pazientemente per la giustizia e la vita eterna qualunque fatica o dolore dovesse capitare? Dicono ancora: La volontà dei malvagi è capace, senza l’aiuto divino, di far loro affrontare tormenti per l’iniquità anche prima che altri vengano a torturarli; la volontà di coloro che amano i passatempi della vita terrena, senza l’aiuto di Dio, riesce a far sì che essi perseverino nella menzogna, pur in mezzo a tormenti quanto mai atroci e prolungati, affinché non abbiano a confessare i loro delitti ed essere puniti con la morte. E non sarà in grado la volontà dei giusti, senza l’aiuto d’una forza che le venga dall’alto, di sopportare qualsiasi pena per la bellezza che è propria della giustizia e per amore della vita eterna?

    Pazienza, carità e aiuto divino.
    17. 14. Quelli che dicono queste cose non comprendono che tra i malvagi uno è tanto più resistente a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore del mondo, mentre tra i giusti uno è tanto più forte a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore di Dio. Ma l’amore del mondo ha la sua origine dall’arbitrio della volontà, il suo progresso dal diletto del piacere e la sua fermezza dal vincolo dell’abitudine, mentre la carità di Dio è diffusa nei nostri cuori, non certamente da noi, ma dallo Spirito Santo che ci è stato dato 29. Perciò la pazienza dei giusti viene da colui per mezzo del quale è diffusa la loro carità. Lodando e inculcando questa carità l’Apostolo dice che essa, fra gli altri pregi, possiede anche quello di sopportare ogni cosa. La carità, dice, è longanime, e dopo un poco: La carità sopporta tutto 30. Quanto maggiore è dunque nei santi la carità di Dio tanto più facile è per loro sopportare ogni cosa per ciò che amano. Parimenti è dei peccatori: quanto più è grande in loro la cupidigia mondana tanto più riescono a sopportare tutto per soddisfare le loro voglie disordinate. Pertanto la vera pazienza dei giusti deriva da quella sorgente da cui deriva la carità divina; la falsa pazienza dei malvagi deriva dalla sorgente da cui proviene la cupidigia mondana. Ecco quanto dice al riguardo l’apostolo Giovanni: Non amate il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, non c’è in lui l’amore del Padre, poiché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione secolaresca, e questo non proviene dal Padre ma dal mondo 31. E questa concupiscenza, che non proviene dal Padre ma dal mondo, quanto più è forte e ardente nell’uomo, tanto più quest’uomo diviene paziente di fronte ai disagi e ai dolori che deve affrontare per ciò che desidera. Ne segue, come abbiamo già detto, che una tale pazienza non discende dall’alto, mentre viene dall’alto la pazienza dei santi, che scende dal Padre della luce. Pertanto l’una è terrena, l’altra celeste; l’una animale, l’altra spirituale; l’una diabolica, l’altra divinizzatrice. E la ragione di ciò è che la concupiscenza per la quale i peccatori sopportano tenacemente ogni male deriva dal mondo, mentre deriva da Dio la carità per la quale i buoni sopportano con fortezza tutti i loro mali. Va quindi da sé che l’uomo con la sua volontà, senza l’aiuto di Dio, ha risorse sufficienti per avere la pazienza falsa; e questo uomo diviene tanto più ostinato quanto più cupido, tanto più resistente di fronte ai mali quanto più cresce in malvagità. Quanto alla vera pazienza invece, la volontà umana non è in grado di conseguirla senza l’aiuto divino che la infiammi. Ora questo fuoco è lo Spirito Santo; e finché questo Spirito non viene ad infiammarla d’amore per il Bene inalterabile, la volontà non sarà mai capace di sopportare il male che l’affligge.

    Doni di Dio, la carità e la pazienza.
    18. 15. Come attestano gli autori divinamente ispirati, Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui 32. Chi pretende di poter avere la carità di Dio senza l’aiuto di Dio, che altro pretende se non che si possa avere Dio senza Dio? Ora, quale cristiano oserebbe dire questo, se non lo direbbe nessuno che sia soltanto sano di mente? Nell’Apostolo invece ecco come esulta la pazienza vera, pia, fedele, che per bocca dei santi dice: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Dunque non per merito nostro ma per virtù di colui che ci ha amati. Poi prosegue aggiungendo: Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né potenze, né presente né avvenire, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore 33. È questa la carità di Dio che è stata diffusa nei nostri cuori: non conquistata da noi ma diffusa dallo Spirito Santo che ci è stato donato 34. Viceversa è della concupiscenza dei cattivi, che è all’origine della loro falsa pazienza: essa non proviene dal Padre, come dice l’apostolo Giovanni, ma dal mondo 35.
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    La pazienza di Giobbe.
    11. 9. L’ira di questo nemico ebbe ad esperimentare il santo Giobbe: da lui fu aspramente provato con le due specie di tentazione, ma in tutt’e due riuscì vincitore con l’immutabile forza della pazienza e le armi della pietà. In principio, rimanendo illeso il corpo, soffrì la perdita di tutto ciò che aveva; e così, prima che il suo corpo subisse tormenti, il suo animo fu lacerato dalla perdita di quei beni che gli uomini hanno più a cuore, e, siccome si pensava che egli servisse Dio in vista di quei beni, ne doveva seguire che perdendoli avrebbe bestemmiato contro di lui. Fu colpito anche dalla morte improvvisa di tutti i figli: li aveva avuti uno dopo l’altro, li perse tutti in una volta; e se erano stati numerosi, questo non fu per accrescere la sua gioia ma per aumentare la sventura. Quando gli toccò di soffrire tutti questi mali, egli rimase fermo nella fedeltà a Dio, sempre unito alla volontà di colui che non avrebbe potuto perdere se non per una scelta della sua propria volontà; e, a posto di tutto quello che perse, gli rimase colui che glielo toglieva, colui nel quale avrebbe trovato ciò che era imperituro. A togliergli i beni infatti non era stato il maligno che l’aveva voluto danneggiare, ma colui che aveva dato a lui il potere di farlo.

    Giobbe più avveduto di Adamo.
    12. 9. Il nemico lo aggredì anche nel corpo, e lo colpì non solo nei beni che sono al di fuori dell’uomo ma anche nella sua stessa persona, in ogni parte dove gli fu possibile. Dalla testa ai piedi dolori di fuoco, vermi che uscivano, putridume che colava; ma in quel corpo in disfacimento l’animo restava integro e sopportava con pietà inalterata e pazienza invitta gli orribili tormenti d’una carne imputridita. Accanto a lui c’era la moglie, ma al marito non dava alcun aiuto, anzi lo esortava a bestemmiare Dio. Il diavolo, che a Giobbe aveva rapito i figli, nel lasciargli la moglie non si comportò da inesperto nell’arte del nuocere, avendo imparato già in Eva quanto una donna può rendersi utile al tentatore 14. Solo che questa volta non s’imbatte in un altro Adamo, da poter prendere al laccio tramite la donna. Fra i dolori, costui fu più accorto che non quell’altro fra gli allori: quello era nel godimento e fu vinto, questi era nella sofferenza e vinse; quello credette alle lusinghe, questo non si piegò di fronte ai tormenti. E c’erano anche gli amici: non per confortarlo nella sventura, ma per avanzare sospetti sulla sua colpevolezza. Non credevano infatti che un uomo colpito da tanti mali potesse essere innocente, e la loro lingua pronunziava accuse di colpe che erano estranee alla sua coscienza. E così mentre il corpo soffriva atroci dolori, anche l’anima era flagellata da infondate rampogne. Ma ecco Giobbe sopportare nel corpo i propri dolori, nel cuore le calunnie altrui. Rimproverava alla moglie la stoltezza, agli amici insegnava la sapienza, in tutto conservava la pazienza.

    Deprecabile l’impazienza dei donatisti.
    13. 10. Guardino a Giobbe quei tali che si danno la morte quando sono ricercati perché vivano. Togliendosi la vita presente essi si escludono anche da quella futura. Quand’anche li si costringesse a rinnegare Cristo o a commettere peccati contro la giustizia, come succedeva ai veri martiri, essi dovrebbero sopportare tutto con pazienza anziché darsi la morte per impazienza. Se infatti ci si potesse suicidare lecitamente per schivare le sofferenze, il santo Giobbe si sarebbe ucciso senz’altro per sottrarsi ai mali così gravi che la crudeltà del diavolo gli aveva causato negli averi, nei figli e nelle membra del corpo. Ma egli non lo fece. Impensabile infatti che un uomo sapiente come lui compisse su se stesso un gesto che nemmeno la moglie insipiente aveva osato suggerirgli. E se gliel’avesse suggerito, si sarebbe anche in tal caso buscata la risposta che ascoltò quando suggerì la bestemmia: Hai parlato come una donna stupida. Se dalla mano di Dio abbiamo ricevuto i beni, perché non dovremmo accettare anche i mali? 15 Quanto a lui, avrebbe perduto la pazienza sia che fosse morto bestemmiando, come voleva la moglie, sia che fosse morto uccidendosi, come nemmeno lei aveva osato proporgli. In ogni caso sarebbe stato del numero di coloro di cui è stato detto: Guai a chi perde la pazienza! 16 Invece di sottrarsi alle pene, le avrebbe accresciute in quanto, dopo la morte del corpo, sarebbe incorso nei supplizi riservati ai bestemmiatori, o agli omicidi, o a chi è peggio dei parricidi. Il parricida infatti è colpevole più d’ogni altro omicida, poiché uccide non solo un uomo ma un consanguineo, e fra gli stessi parricidi uno è ritenuto tanto più crudele quanto più prossimo è il congiunto che uccide. Ora chi uccide se stesso è peggiore di tutti i parricidi, perché nessuno è vicino a noi più di noi stessi. Quanto dunque non sarà grave la colpa di quei miseri che si infliggono da se stessi delle pene in questa vita e di là debbono scontare non solo quelle dovute alla loro empietà verso Dio ma anche quelle dovute alla crudeltà verso se stessi? Ma essi, per di più, presumono gli onori dei martiri! Anche se avessero sostenuto la persecuzione per una vera testimonianza a Cristo e si fossero uccisi per sfuggire ai persecutori, giustamente si applicherebbero ad essi le parole: Guai a chi perde la pazienza! In che modo infatti si potrebbe concedere loro con giustizia il premio della pazienza se questo andasse a coronare un martirio dovuto all’impazienza? Ovvero, uno che si è sentito dire: Amerai il prossimo tuo come te stesso 17, come può essere giudicato innocente se commette omicidio contro se stesso, quando è proibito commetterlo contro il prossimo?

    La pazienza dei buoni.
    14. 11. Vogliano dunque i santi ascoltare dalla Sacra Scrittura alcuni precetti di pazienza: Figlio, se ti presenti a servire Dio, sta’ saldo nella giustizia e nel timore e prepara la tua anima alla tentazione. Umilia il tuo cuore e sii coraggioso: così alla fine si accrescerà la tua vita. Accogli tutto ciò che ti sopraggiunge, e nel dolore sopporta e nella umiliazione sii paziente. Poiché l’oro e l’argento si provano col fuoco, gli uomini accetti [a Dio] nella fornace dell’umiliazione 18. In un altro testo si legge: Figlio, non venir meno sotto la disciplina del Signore e non stancarti quando da lui sei rimproverato. Egli infatti rimprovera colui che ama e usa i flagelli con il figlio che gli è caro 19. Quanto qui si dice e cioè: Il figlio che gli è caro corrisponde a gli uomini accetti del testo di prima. È giusto infatti che noi, scacciati dalla originaria felicità del paradiso per un’ostinata voglia di piaceri, vi siamo riammessi mediante l’umile sopportazione delle nostre sventure. Fuggimmo facendo il male, torniamo sopportando il male; lassù operatori di ingiustizia, quaggiù coraggiosi nella prova per amore della giustizia.
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    Sopportare i mali della vita per la beatitudine eterna.
    7. 6. Gli uomini dunque sopportano con mirabile fortezza molte pene atroci per soddisfare le passioni, per commettere delitti o, quanto meno, per godere vita e salute nel tempo presente. Ciò è per noi un richiamo a sopportare disagi anche gravi per condurre una vita buona, in modo che alla fine conseguiamo la vita eterna: quella che ci assicura una felicità vera, senza scadenza di tempo, senza diminuzione di ciò che è positivo e vantaggioso. Il Signore disse: Con la vostra pazienza possederete le vostre anime 5. Non disse: "Le vostre ville", "i vostri onori", "i vostri piaceri", ma le vostre anime. Se dunque un’anima sopporta tanti disagi per possedere cose che la portano alla rovina, quanti non ne dovrà sopportare per possedere ciò che la sottrae alla rovina? E ora dirò una cosa dove non vi è questione di colpa: se uno soffre tanto per la propria salute fisica quando capita in mano ai medici che lo tagliano o bruciano, quanto non dovrà soffrire per la sua salute [eterna] attaccata da nemici furiosi, qualunque essi siano? I medici infatti facendo soffrire il corpo tentano di sottrarre il corpo alla morte; i nemici minacciando pene e morte al corpo sospingono l’anima e il corpo ad essere uccisi nella geenna.

    Sopportando si provvede al bene del corpo stesso.
    7. 7. C’è di più. Se per amore della giustizia si sacrifica la salute corporale, si provvede in maniera più efficace al bene del corpo stesso. Ciò vale anche se per amore della giustizia si sopportano con grande pazienza le sofferenze corporali e la stessa morte. Della redenzione finale del corpo parla infatti l’Apostolo quando dice: Noi gemiamo in noi stessi aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. E soggiunge: Noi siamo stati salvati nella speranza. La speranza poi, se la si vede, non è speranza. Ciò che infatti vede, come potrebbe uno sperarlo? Se invece speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con la pazienza 6.

    La pazienza interessa l’anima e il corpo.
    8. 7. Quando dunque ci affliggono mali che non ci inducono a commettere il peccato, esercitando la pazienza l’anima acquista il dominio di se stessa; non solo, ma se lo stesso corpo viene per qualche tempo colpito dal dolore o anche dalla morte, attraverso la pazienza lo si recupera per una salute stabile, anzi eterna, e così attraverso il dolore e la morte gli si procura una salute perfetta e un’immortalità felice. Al riguardo il Signore Gesù, volendo esortare i suoi martiri alla pazienza, promise loro che avrebbero ottenuto l’integrità del corpo senza subire la perdita non dico d’un qualche membro ma nemmeno di un capello. Diceva: Ve lo dico in verità: un solo capello della vostra testa non andrà perduto 7. E siccome son vere le parole dell’Apostolo: Nessuno ha mai odiato la sua carne 8, ne segue che il cristiano provvede al bene del suo corpo più con la pazienza che con l’intolleranza, e con il guadagno inestimabile dell’incorruttibilità futura compensa le tribolazioni della vita presente, per quanto grandi possano essere.

    8. 8. Sebbene la pazienza sia una virtù dell’anima, tuttavia l’anima la esercita in parte su se stessa, in parte nei riguardi del corpo. La esercita in se stessa quando, senza che il corpo venga leso e toccato, l’anima è spinta dagli stimoli di avversità o da brutture reali o verbali a fare o a dire cose sconvenienti o indecorose; ma lei sopporta con pazienza tutti i mali per non commettere nulla di male con azioni o parole.

    La pazienza dell’anima.
    9. 8. In virtù di questa pazienza dell’anima noi, sani di corpo, sopportiamo che ci venga rinviata la nostra beatitudine e che ci tocchi di vivere fra gli scandali del tempo presente. A ciò si riferiscono le parole or ora menzionate: Se speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con la pazienza. Per questa pazienza il santo [re] Davide sopportò le ingiurie di chi lo svillaneggiava e, sebbene potesse facilmente vendicarsi, non solo non si vendicò, ma trattenne dalla vendetta quell’altro che, addolorato, s’era fatto prendere dall’ira 9, e del suo potere regale si servì più per proibire che per esercitare la vendetta. In quel frangente non era il suo corpo che veniva tormentato da malattie o ferite, ma era il suo animo che, riconoscendo il momento dell’umiliazione, la sopportava per fare la volontà di Dio e per questo ingoiava con somma pazienza l’amara bevanda della contumelia. Questa pazienza ci insegnò il Signore quando disse che ai servi irritati per la mescolanza della zizzania [con il buon grano] e desiderosi di estirparla il padrone di casa rispose: Lasciate che [le due piante] crescano fino al tempo della mietitura 10. Infatti occorre sopportare con pazienza ciò che non si può eliminare con fretta. Di questa pazienza ci ha offerto un esempio palese lui stesso tollerando quel discepolo, che era ladro, vicino a sé fino al tempo della passione, cioè finché non lo denunziò come traditore 11. Prima di esperimentare le funi, la croce e la morte, non rifiutò il bacio di pace a quelle labbra menzognere 12. Tutti questi esempi, e i tanti altri che sarebbe lungo ricordare, rientrano in quel genere di pazienza dove l’anima non soffre per i suoi peccati, ma dentro di sé sopporta pazientemente quei mali che le provengono dal di fuori senza che il corpo ne venga minimamente colpito.

    La pazienza dei martiri.
    10. 8. C’è un altro campo per esercitare la pazienza: quello in cui l’anima tollera gli affanni e i dolori derivanti dai patimenti del corpo: non certo quelli che soffrono gli uomini stolti o perversi per raggiungere vani ideali o per perpetrare delitti ma, com’ebbe a determinare il Signore, per la giustizia 13. L’uno e l’altro combattimento sostennero i santi martiri. Vennero infatti coperti di contumelie da parte degli empi, e in quel caso l’animo rimanendo saldo sosteneva come delle sue proprie ferite, mentre il corpo ne era esente; per quanto poi riguarda il loro corpo, essi furono legati, incarcerati, affamati e assetati, torturati, segati, squartati, bruciati, uccisi barbaramente. Con incrollabile fedeltà sottomisero il loro spirito a Dio, mentre nel corpo soffrivano tutto ciò che la crudeltà dei persecutori seppe immaginare.

    La pazienza nella lotta contro il diavolo.
    10. 9. È più grande la lotta che sostiene la pazienza quando non si tratta d’un nemico visibile che perseguitando con ferocia ti spinge al male (esso è allo scoperto, e chi non gli consente lo vince in maniera palese), ma si tratta del diavolo stesso che, servendosi magari di gente incredula come di suoi strumenti, perseguita i figli della luce ovvero, rimanendo occulto li assale e con ferocia li stimola a fare e a dire cose che dispiacciono a Dio.
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    La pazienza di Dio.
    1. 1. La virtù dell’anima che chiamiamo pazienza è un dono di Dio così grande che noi parliamo di pazienza anche riferendoci a colui che a noi la dona; e vi intendiamo la tolleranza con cui egli aspetta che i cattivi si ravvedano. È vero infatti che il nome "pazienza" deriva da patire, ma pur essendo vero che Dio non può in alcun modo patire, tuttavia noi per fede crediamo, e confessiamo per ottenere la salvezza, che Dio è paziente. Ma questa pazienza di Dio, come essa sia e quanto sia grande, chi potrà descriverlo a parole? Noi possiamo affermare che egli non può patire nulla, eppure non lo diciamo impaziente ma pazientissimo. La sua pazienza è dunque ineffabile, come è ineffabile la sua gelosia, la sua ira e gli altri moti somiglianti, che se noi pensassimo essere uguali ai nostri, dovremmo escluderli tutti. Noi infatti non ne proviamo alcuno che non sia congiunto a turbamento, mentre è assurdo pensare che la natura divina, che è impassibile, provi turbamento. Dio infatti è geloso senza invidia, si adira senza alterarsi, ha compassione senza addolorarsi, si pente senza doversi ravvedere d’un qualsiasi errore. Così è paziente senza patire. Ora dunque, per quanto il Signore me lo concederà e per quanto lo permette la brevità del presente discorso, parlerò sulla natura della pazienza umana, che noi possiamo acquisire e dobbiamo avere.

    La vera pazienza.
    2. 2. È risaputo che la pazienza retta, degna di lode e del nome di virtù, è quella per la quale con animo equo tolleriamo i mali, per non abbandonare con animo iniquo quei beni, per mezzo dei quali possiamo raggiungere beni migliori. Pertanto chi non ha la pazienza, mentre si rifiuta di sopportare i mali, non ottiene d’essere esentato dal male ma finisce col soffrire mali maggiori. I pazienti preferiscono sopportare il male per non commetterlo piuttosto che commetterlo per non sopportarlo; così facendo rendono più leggeri i mali che soffrono con pazienza ed evitano mali peggiori in cui cadrebbero con l’impazienza. Ma soprattutto non perdono i beni eterni e grandi, quando non cedono ai mali temporanei e di breve durata poiché, come dice l’Apostolo, i patimenti del tempo presente non meritano d’essere paragonati con la gloria futura che si rivelerà in noi 1. Egli dice ancora: La nostra sofferenza, temporanea e leggera, produce per noi in maniera inimmaginabile una ricchezza eterna di gloria 2.

    La grande pazienza dei cattivi.
    3. 3. Volgiamo ora lo sguardo, o carissimi, alle fatiche, ai dolori e alle asperità che gli uomini sopportano per ciò che amano spinti dai loro vizi, per tutte quelle cose che quanto più si pensa abbiano ad arrecare felicità tanto più si diventa infelici nel desiderarle. Quanti rischi e molestie affrontano con la più grande pazienza per le false ricchezze, i vani onori e le frivole soddisfazioni. Li vediamo avidi di denaro, di gloria e di piaceri lascivi, che per ottenere le cose desiderate e non perderle quando le hanno ottenute, sopportano il calore, la pioggia, il freddo, i flutti e le burrasche più tempestose, le durezze e incertezze delle guerre, i colpi di piaghe crudeli e orribili ferite. E tutto questo sopportano non per una inevitabile necessità, ma per un atto colpevole della loro volontà.

    La forza del desiderio rende tollerabili le fatiche e i dolori.
    4. 4. In realtà la gente ritiene che l’avarizia, l’ambizione, la dissolutezza, le attrattive per i vari divertimenti rientrano nell’ambito d’una condotta irreprensibile, almeno finché per soddisfarle non si commettono azioni riprovevoli o delitti condannati dalle leggi umane. Ci sono infatti persone che si sottopongono a grandi fatiche e dolori per acquistare o aumentare il proprio capitale, per conseguire o conservare posti onorifici, per partecipare a gare agonistiche o venatorie, per ottenere plauso allestendo spettacoli teatrali. Se questo riescono a fare senza ledere i diritti altrui, è poco dire che dalla vacuità del popolo essi non vengono disapprovati e così se ne astengono. Al contrario vengono esaltati ed inneggiati; proprio come dice la Scrittura: Il peccatore è lodato nei desideri del suo cuore 3. In effetti è la forza dei desideri a farci tollerare fatiche e dolori e nessuno accetta spontaneamente di sopportare ciò che fa soffrire, se non per quello che diletta. Ma, come ho detto, le passioni ora nominate son considerate legittime, autorizzate dalla legge, e quanti ardono dal desiderio di appagarle sopportano con estrema pazienza molti disagi e asperità.

    La straordinaria resistenza di Catilina.
    5. 4. E che dire di quelle persone che sopportano molti e gravissimi disagi per crimini conclamati, e non per punirli ma per commetterli? Non parlano forse gli storici pagani di quel tale, famigerato assassino della patria, dicendo che era capace di sopportare la fame, la sete, il freddo; il suo corpo era in grado di tollerare digiuni, freddi e veglie oltre ogni immaginazione 4? E che dire dei briganti? Per tendere insidie ai passanti trascorrono notti insonni, e per sequestrare viandanti incolpevoli irrigidiscono sotto ogni genere di intemperie il loro animo e il loro corpo, dediti al male. Si racconta pure che alcuni di loro si torturano l’un l’altro, al segno che l’allenamento per sottrarsi alla pena non si differenzia per nulla dalla pena stessa. È probabile infatti che dal giudice non sarebbero torturati così atrocemente quanto lo si fa dai loro complici per impedire che vengano denunziati dal correo sottoposto a torture. In questi casi tuttavia la pazienza è, se mai, da ammirare, non da lodare; anzi, non è né da lodare né da imitare, poiché non si tratta di pazienza. Si potrà parlare di straordinaria insensibilità, ma non si trova nulla della pazienza; e quindi non c’è niente che possa essere giustamente lodato e niente che possa essere utilmente imitato. E quindi farai bene a giudicare quell’anima degna di tanto maggiore condanna quanto più dedica ai vizi le risorse destinate all’acquisto delle virtù. La pazienza è socia della sapienza, non schiava della concupiscenza; la pazienza è amica della buona coscienza, non avversaria dell’innocenza.

    Criterio per distinguere la vera dalla falsa pazienza.
    6. 5. Quando vedi qualcuno che soffre qualche male, non metterti subito a lodarne la pazienza, che è messa in luce solo dalla motivazione della pazienza. Se la motivazione è buona, la pazienza è vera. Se la motivazione non è resa impura dalla cupidigia, allora la pazienza si distingue da quella falsa. Quando la motivazione mira a un crimine, si fa un grande errore a chiamarla pazienza. Infatti non tutti coloro che sanno qualcosa posseggono la scienza; così non tutti coloro che patiscono qualcosa posseggono la pazienza. Solo chi della passione si serve per il bene merita l’elogio della vera pazienza e riceve la corona per la virtù della pazienza.
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    Gradi della pazienza.
    Tre sono i gradi della pazienza, Nostro Signore ce li ha indicati nel Vangelo e si è compiaciuto di darcene l'esempio.
    Il primo è di soffrire le nostre pene in pace, con rassegnazione, conservandoci in una perfetta sottomissione agli ordini di Dio. Così Giobbe in mezzo alle, sue afflizioni diceva, in una perfetta pace e con un intero abbandono alla volontà divina: Dio mi aveva diato tutto, Dio me lo ha tolto, sia benedetto il suo santo Nome!
    L'anima paziente non si lamenta né contro Dio né contro il prossimo; non si inquieta menomamente nel suo cuore per il proprio male, essendo animata dalle stesse disposizioni delle anime del Purgatorio, le quali con una sublime pace soffrono 1a violenza del fuoco e dei tormenti.
    Questo primo grado della pazienza viene espresso in queste parole di Gesù: Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia e, che la soffrono in pace e con sottomissione agli ordini santi della Divina Provvidenza. Gesù Cristo ce ne ha dato l'esempio col sottomettersi volontariamente a tante pene, passando per ogni sorta di patimenti, tranquillo come la pecora che si lascia menare al macello

    Il secondo grado, è di desiderare ardentemente di patire. Ciò si è veduto nei martiri, che avevano il cuore infiammato di un desiderio così intenso da lasciar comparire. anche esternamente il loro grande amore per i patimenti.
    Così S. Andrea, alla vista dei tormenti esclamava: O buana croce, da tanto tempo così ardentemente desiderata! Lorenzo poi si lamentava nel veder ritardato il suo martirio; e S. Teresa, nei trasporti del suo amore, esclamava: Aut patì, aut mori. O soffrire, o morire!
    Nostro Signore esprimeva questo secondo grado della pazienza con queste parole: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, e che sospirano di patire perchè in essi si compiano i disegni di Dio, il quale vuole che tutti i cristiani soffrano con Gesù Cristo, e che in Lui e con Lui prestino soddisfazione alla divina giustizia.
    Gesù ha voluto pure darcene l'esempio, col. manifestarci il suo ardente e continuo desiderio di soffrire, quando diceva: Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi. Desiderio desideravi. Egli considerava il sacrificio della Pasqua come un solo sacrificio con quello della Croce che doveva comprendere ed includere ogni patimento: e per questo motivo manifestava un grande desiderio di mangiare coi discepoli quell'ultima Pasqua.

    Il terzo grado è di soffrire con piacere e con gioia. Così gli Apostoli e i primi cristiani se ne ritornavano dai tribunali pieni di gioia perché erano stati degni di soffrire per Gesù Cristo.
    S. Paolo, nelle sue Epistole, attesta ai fedeli che li vuole compagni della sua gioia nelle sue afflizioni e nelle sue pene. Non solo ci manifesta la gioia che prova nel patire, ma afferma che trionfa nelle sue infermità e si gloria delle sue sofferenze. S. Giacomo dice pure che il nostro cuore deve essere ripieno di ogni gioia in ogni pena e tentazione.
    Nostro Signore. esprimeva questo terzo grado con queste parole: Beati voi, quando gli uomini vi perseguiteranno e lanceranno contro di voi, ogni sorta di maledizioni e calunnie; allora rallegratevi. Ce ne ha dato pure l'esempio, poiché sta scritto: Propostosi il gaudio, sostenne la Croce, Proposito cibi gaudio sustinuit crucem.
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    da: “MARIA REGINA E MADRE DI MISERICORDIA” - don Giuseppe Tomaselli

    Giuseppe d'Arimatea, nobile decurione, volle avere l'onore di dare la sepoltura al corpo di Gesù e diede un sepolcro nuovo, scavato nella viva pietra, poco distante dal posto ove il Signore era stato crocifisso. Comprò una sindone per avvolgervi le sacre membra.
    Gesù morto fu trasportato con massimo rispetto alla sepoltura; si formò un mesto corteo: alcuni discepoli portavano il cadavere, le pie donne seguivano commosse e tra loro stava la Vergine Addolorata; anche gli Angeli invisibilmente facevano corona.
    Il cadavere fu deposto nel sepolcro e, prima di essere avvolto nella sindone e legato con le bende, Maria diede l'ultimo sguardo al suo Gesù. Oh, come avrebbe voluto la Madonna restare sepolta col Divin Figlio, pur di non abbandonarlo!
    Si avanzava la sera ed era necessario lasciare il sepolcro. Dice San Bonaventura che Maria al ritorno passò da quel posto ov'era ancora innalzata la Croce; la rimirò con affetto e dolore e baciò quel Sangue del Divin Figlio, che la imporporava.
    L'Addolorata ritornò a casa con Giovanni, l'Apostolo prediletto. Andava così afflitta e mesta questa povera Madre, dice San Bernardo, che per dove passava muoveva al pianto.
    Straziante è la prima notte per una madre che perde il figlio; l'oscurità ed il silenzio portano alla riflessione ed al risveglio dei ricordi.
    In quella notte, dice Sant'Alfonso, la Madonna non poteva riposare e le terrificanti scene della giornata le rivivevano nella mente. In tanta ambascia era sostenuta dall'uniformità ai voleri di Dio e dalla ferma speranza della vicina risurrezione.
    Consideriamo che anche per noi verrà la morte; saremo messi in un sepolcro e lì attenderemo l'universale risurrezione. Il pensiero che il nostro corpo dovrà gloriosamente risorgere, ci sia di luce nella vita, di conforto nelle prove e ci sostenga in punto di morte.
    Consideriamo inoltre che la Madonna, allontanandosi dal sepolcro, lasciò il Cuore sepolto con quello di Gesù. Anche noi seppelliamo il nostro cuore, con i suoi affetti, nel Cuore di Gesù. Vivere e morire in Gesù; essere seppelliti con Gesù, per risorgere con Lui.
    Il sepolcro che conservò per tre giorni il Corpo di Gesù, è simbolo del nostro cuore che conserva Gesù vivo e vero con la Santa Comunione. Questo pensiero è richiamato nell'ultima stazione della Via Crucis, quando si dice: O Gesù, fate che io vi possa ricevere degnamente nella Santa Comunione! -
    Abbiamo meditato i sette dolori di Maria. Il ricordo di quello che soffri la Madonna per noi, ci sia sempre presente. Desidera la nostra Celeste Madre che i Figli non dimentichino le sue lacrime. Nel 1259 apparve a sette suoi devoti, che poi furono i fondatori della Congregazione dei Servi di Maria; presentò loro una veste di colore nero, dicendo che se volevano farle piacere, meditassero spesso i suoi dolori e in memoria di essi portassero come abito quella veste nera.
    O Vergine Addolorata, imprimete nel nostro cuore e nella nostra mente la memoria della Passione di Gesù e dei vostri dolori!

    ESEMPIO Il periodo della gioventù è assai pericoloso per la purezza; se non si domina il cuore, può giungersi sino all'aberrazione nella via del male.
    Un giovane di Perugia, ardendo di amore illecito e non riuscendo nel suo pessimo intento, invocò il demonio per essere aiutato. Il nemico infernale si presentò in forma sensibile.
    - Io ti prometto di darti l'anima mia, se tu mi aiuterai a commettere un peccato!
    - Sei disposto a scrivere la promessa?
    - Sì; e la firmerò col mio sangue! -
    L'infelice giovane riuscì a commettere il peccato. Subito dopo il demonio lo condusse vicino ad un pozzo; gli disse: Mantieni ora la tua promessa! Gettati in questo pozzo; se non lo farai, ti porterò all'inferno in anima e corpo! -
    Il giovane, credendo di non potere più liberarsi dalle mani del maligno, non avendo il coraggio di precipitarsi, soggiunse: Dammi tu stesso la spinta; io non oso gettarmi! -
    La Madonna venne in aiuto. Il gíovane teneva al collo l'abitino dell'Addolorata; da tempo lo portava. Il demonio soggiunse: Togli prima dal collo quell'abitino, altrimenti non posso darti la spinta! -
    Il peccatore comprese a queste parole l'inferiorità di Satana davanti alla potenza della Vergine e gridando invocò l'Addolorata. Il demonio, arrabbiato a vedersi sfuggire la preda, protestò, cercò d'intimorire con minacce, ma alla fine parti sconfitto.
    Il povero traviato, grato alla Madre Addolorata, andò a ringraziarla e, pentito dei suoi peccati, volle sospenderne anche un voto, espresso in un quadro al suo Altare nella Chiesa di S. Maria La Nuova, in Perugia.
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    da: “MARIA REGINA E MADRE DI MISERICORDIA” - don Giuseppe Tomaselli

    Gesù era morto, erano finite le sue sofferenze, ma non erano finite per la Madonna; ancora una spada doveva trafiggerla. Affinché non fosse turbata la gioia del seguente sabato pasquale, i Giudei deponevano dalla croce i condannati; se ancora non erano morti, li uccidevano rompendo loro le ossa.
    La morte di Gesù era certa; tuttavia uno dei soldati si avvicinò alla Croce, diede un colpo di lancia e apri il costato al Redentore; ne usci sangue ed acqua. Questa lanciata fu per Gesù un oltraggio, per la Vergine un nuovo dolore. Se una madre vedesse infiggere un coltello nel petto del figlio morto, cosa proverebbe nell'animo? ... La Madonna contemplò quell'atto spietato e senti trapassare dalla stessa lancia il suo Cuore. Altre lacrime sgorgarono dai suoi occhi. Anime pietose s'interessarono per avere da Pilato il permesso di seppellire il corpo di Gesù. Con grande rispetto il Redentore fu deposto dalla Croce. La Madonna ebbe tra le braccia il corpo del Figlio. Seduta ai piedi della Croce, col Cuore spezzato dal dolore, contemplò quelle sacre membra insanguinate. Rivide nella mente il suo Gesù, tenero bambino vezzoso, quando lo copriva di baci; lo rivide grazioso adolescente, quando incantava con la sua attrattiva, essendo il più bello dei figli degli uomini; ed ora lo mirava esanime, in uno stato da far pietà. Guardò la corona di spine intrisa di sangue e quei chiodi, strumenti della Passione, e si fermò a contemplare le ferite!
    Vergine Sacrosanta, tu hai dato al mondo il tuo Gesù per la salvezza degli uomini e guarda come ora gli uomini te lo rendono! Quelle mani che hanno benedetto e beneficato, l'ingratitudine umana le ha forate. Quei piedi che sono andati in giro per evangelizzare sono piagati! Quel volto, che gli Angeli mirano con devozione, gli uomini lo hanno ridotto irriconoscibile!
    O devoti di Maria, perché non sia vana la considerazione del grande dolore della Vergine ai piedi della Croce, prendiamo qualche frutto pratico. Quando i nostri occhi si posano sul Crocifisso o sull'immagine della Madonna, rientriamo in noi stessi e riflettiamo: Io con i miei peccati ho aperto le ferite nel corpo di Gesù ed ho fatto lacrimare e sanguinare il Cuore di Maria! Mettiamo nella ferita del Costato di Gesù le nostre colpe, specialmente le più gravi. Il Cuore di Gesù è aperto, affinché tutti vi possano entrare; però vi si entra per mezzo di Maria. La preghiera della Vergine è efficacissima; tutti i peccatori possono goderne i frutti.
    La Madonna implorò sul Calvario la divina misericordia per il buon ladrone e gli ottenne la grazia di andare quel giorno stesso in Paradiso. Nessun'anima dubiti della bontà di Gesù e della Madonna, ancorché fosse carica dei più enormi peccati.

    ESEMPIO Narra il Discepolo, valente scrittore sacro, che vi era un peccatore, il quale tra le altre colpe aveva anche quella di avere ucciso il padre e il fratello. Per sfuggire alla giustizia andava ramingo.
    Un giorno di quaresima entrò in una Chiesa, mentre il predicatore parlava della misericordia di Dio. Il suo cuore si aprì alla fiducia, decise di confessarsi e, finita la predica, disse al predicatore: Voglio confessarmi con voi! Ho dei delitti nell'anima! -
    Il Sacerdote lo invitò ad andare a pregare all'Altare della Madonna Addolorata: Domandate alla Vergine il vero dolore dei vostri peccati! -
    Il peccatore, inginocchiato davanti all'immagine dell'Addolorata, pregò con fede e ricevette tanta luce, per cui capi la gravezza delle sue colpe, le molte offese recate a Dio ed alla Madonna Addolorata e fu preso da tale dolore che mori ai piedi dell'Altare.
    Il giorno seguente il Sacerdote predicatore raccomandò al popolo che si pregasse per l'infelice ch'era morto in Chiesa; mentre diceva ciò, apparve nel Tempio una bianca colomba, da cui si vide cadere una cartella davanti ai piedi del Sacerdote. Questi la prese e vi lesse: L'anima del morto appena uscita dal corpo, è andata in Paradiso. E tu continua a predicare l'infinita misericordia di Dio! -
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    da: “MARIA REGINA E MADRE DI MISERICORDIA” - don Giuseppe Tomaselli

    Ad assistere alla morte di qualcuno, anche estraneo, si provano sentimenti dolorosi. E che cosa prova una madre quando è presso il letto del figlio moribondo? Vorrebbe poter lenire tutte le pene dell'agonia e darebbe la vita per procurare dei conforti al figlio morente.
    Contempliamo la Madonna ai piedi iella Croce, ove agonizzava Gesù! La pietosa Madre aveva assistito alla barbara scena della crocifissione; aveva mirato i soldati che toglievano la veste a Gesù; aveva visto il vaso di fiele e di mirra appressarsi alle sue labbra; aveva visto penetrare i chiodi nelle mani e nei piedi del suo diletto; ed eccola ora ai piedi della Croce ed assistere alle ultime ore di agonia!
    Un figlio innocente, che agonizza in un mare di tormenti ... la Madre vicina e le viene proibito di dargli il minimo sollievo. La terribile arsura fece dire a Gesù: Ho sete! - Chiunque corre a cercare un sorso d'acqua per un moribondo; alla Madonna fu vietato fare ciò. San Vincenzo Ferreri commentava: Maria avrebbe potuto dire: Non ho da darti che lacrime! -
    L'Addolorata teneva fisso lo sguardo sul Figlio pendente dalla Croce e ne seguiva i movimenti. Vedere le mani forate e sanguinanti, contemplare quei piedi del Figlio di Dio largamente piagati, osservare la stanchezza delle membra, senza poter menomamente aiutarlo. Oh che spada al Cuore della Madonna! E fra tanto dolore era costretta a sentire gli scherni e le bestemmie che soldati e Giudei lanciavano al Crocifisso. O Donna, grande è il tuo dolore! Acutissima è la spada che trapassa il tuo Cuore!
    Gesù soffriva oltre ogni credere; la presenza della Madre sua, così immersa nel dolore, aumentava la pena del suo delicato Cuore. Si avvicina la fine. Esclamò Gesù: Tutto è compiuto! -- Un tremito pervase il suo corpo, abbassò il capo e spirò.
    Maria se ne accorse; non disse parola, ma costernata all'estremo limite, uni il suo olocausto a quello del Figlio. Consideriamo, anime pietose, il perché delle sofferenze di Gesù e di Maria: la Divina Giustizia, oltraggiata dal peccato, da riparare.
    Solo il peccato fu la causa di tanti dolori. O peccatori, che con tanta facilità commettete la grave colpa, ricordate il male che fate col calpestare la legge di Dio! Quell'odio che nutrite in cuore, quelle cattive soddisfazioni che accordate al corpo, quelle gravi ingiustizie che fate al prossimo ... ritornano a crocifiggere nell'anima vostra il Figlio di Dio e 'trapassano, quale spada, il Cuore Immacolato di Maria! Come puoi, o anima peccatrice, dopo aver commesso un peccato mortale, restare indifferente e scherzare e riposare come se nulla avessi fatto? ... Piangi ai piedi della Croce le tue colpe; supplica la Vergine che lavi con le sue lacrime le tue impurità. Prometti, se viene Satana a tentarti, di richiamare alla mente lo strazio della Madonna sul calvario. Quando le passioni vorrebbero trascinarti al male, pensa: Se cedo alla tentazione, sono figlio indegno di Maria e rendo inutili per me tutti i suoi dolori! ... La morte, ma non peccati! -

    ESEMP1O Il Padre Roviglione della Compagnia di Gesù narra che un giovane aveva contratta la buona abitudine di visitare ogni giorno un'immagine di Maria Addolorata. Non si contentava di pregare, ma contemplava con compunzione la Vergine, raffigurata con sette spade nel Cuore. Avvenne che una notte, non resistendo agli assalti della passione, cadde in peccato mortale. Capì di aver fatto male e si riprometteva di andare in seguito a confessarsi.
    L'indomani mattina, al solito, andò a visitare l'immagine dell'Addolorata. Con sua sorpresa vide che nel petto della Madonna erano conficcate otto spade.
    - Come mai, pensò, questa novità? Sino a ieri le spade erano sette. - Udì allora una voce, che certamente veniva dalla Madonna: Il grave peccato che questa notte hai commesso, ha aggiunto una nuova spada a questo Cuore di Madre. -
    Il giovane s'intenerì, comprese il suo misero stato e senza porre tempo in mezzo andò a confessarsi. Per intercessione della Vergine Addolorata riacquistò l'amicizia di Dio.
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